giovedì 25 settembre 2014

Mario Desiati #1: Foto di classe.

Eccomi a voi anche oggi.
Il 27 settembre è la festa dei lettori e il Presidio del Libro di Martina Franca (TA), la città in cui lavoro, ha organizzato un incontro tra gli alunni delle scuole medie (lo so, si dovrebbe dire Secondaria di Primo Grado, ma trovo il titolo lungo, asettico e poco simpatico) e Mario Desiati, uno scrittore martinese che ho avuto modo di ascoltare diverse volte e di cui ho letto tutti i romanzi, ad eccezione dell’ultimo: “Mare di zucchero”, appena pubblicato con Mondadori. 
In attesa di colmare questa lacuna, dal momento che sabato parteciperò alla presentazione del libro e probabilmente ne acquisterò una copia, ho deciso di occuparmi, in questi giorni, della recensione di tutti quelli che ho già letto.
Successivamente, vi racconterò dell’incontro con gli studenti,  in un post quanto più è possibile dettagliato e documentato, nella speranza di riuscire a scattare anche alcune fotografie decenti. Confesso, però, che i reportage non sono il mio forte e le cronache puntuali mi annoiano. ...
Alla fine, mi impegnerò nella recensione infeltrita di “Mare di zucchero”, se davvero riuscirò a procurarmelo.


Dedicherò a questo autore uno spazio più ampio del solito.

Desiati racconta un Sud che conosco, di cui mi sento parte, nel bene e nel male.
Il suo vissuto adolescenziale, i paesaggi che fanno da sfondo alle storie, la trama dei ricordi su cui si innestano i racconti intersecano alla perfezione la mia esperienza di trentacinquenne pugliese, liceale negli anni Novanta. I colori, i mezzi toni, gli odori, i tic, i fanatismi, il gergo, le ossessioni e i miti della MIA provincia trovano nella SUA penna espressione potente e lirica.
Quando leggo Mario Desiati non sono quasi mai serena. Mi coinvolge e mi sento in diritto persino di mandarlo a quel paese, come si farebbe con un amico di cui ogni tanto non si condivide il punto di vista, ma da cui non ci si separa volentieri.
Voglio iniziare da un libro anomalo, breve e doloroso: Foto di classe. Sottotitolo: U uagnon se n’asciot (il ragazzo se ne è andato) editori Laterza, collana "contromano", 2009. Regalo (graditissimo) per il mio trentesimo compleanno da parte di un’amica che mi conosceva bene.
Inizio a parlarvi di Desiati partendo da “Foto di classe” perché proprio oggi alcune mie colleghe dicevano di esser state compagne di scuola di Mario ai tempi del liceo e a me piace l’idea che nel romanzo, in fondo, tra pregi, vizi e tanta nostalgia, si racconti (chissà) anche di loro.
Lo so è un atteggiamento provinciale, ma mi stuzzica l’idea di scavare tra le memorie e le emozioni di un autore, sentirlo parte di un universo che davvero conosco e mi piace scoprire, nella finzione del romanzo, la rappresentazione di un reale inopinatamente vicino, accessibile e prossimo. È come se nella grandezza e nella lontananza della dimensione letteraria si aprisse un varco, familiare, riconoscibile, mio, in cui sentirmi a casa.
È come dire: "ehi ci sono anch’io!" "Io queste cose le ho viste, le conosco, le so - come lui, anzi prima di lui."

A libri del genere, anche quando non mi piacciono completamente, sento di appartenere…


L’Infeltrita
Foto di classe è una ricerca sociologica contaminata dalla memoria.
È un racconto che mescola autobiografia e inchiesta, ma l’inchiesta - condotta da Mario Desiati - non è e non vuole essere oggettiva: chi la conduce ne è coinvolto fino al midollo.
Si parte da una foto di classe, liceali brufolosi del 1996, e da una rimpatriata, figlia della nostalgia e della noia, in una villa storica di Martina Franca, luogo d’incontro, ormai mausoleo della gioventù anni Novanta, socialmente divisa, anche negli spazi comuni, a seconda delle scuole d’appartenenza: l’Olimpo dei liceali nella parte alta, le Malebolge dei tecnici nei pressi di una Rotonda, più in basso.
Da un incipit che ricorda il film di Verdone, Compagni di scuola, si vira dolcemente verso altri lidi, in una dimensione più generale, ma non meno intensa e partecipata.
Dei venti ragazzi ritratti in foto, solo cinque sono rimasti a Martina, nella provincia lirica struggente bellissima, ma spesso chiusa mortifera castrante. Gli altri sono partiti, s nann sciot, se ne sono andati, e Mario Desiati decide di mettersi sulle loro tracce per scandagliare le ragioni di una scelta (obbligatoria? Condizionata? Casuale? Figlia dei tempi?) che è anche la propria.
Quasi un’intera generazione, quella dei trentenni di oggi, ha lasciato la Puglia, il Sud, senza neppure rendersene conto, senza nemmeno sentirsi emigrata, ma solo fuorisede. Il fuorisede è lo studente che si trasferisce nella città universitaria dove studia, ma che torna a casa, dalla sua famiglia, molto spesso: nel fine settimana, oppure ogni mese, o almeno d’estate. La migrazione del fuorisede è provvisoria, non viene percepita come definitiva, anche se poi, nei fatti, quasi sempre lo diventa. Se ne vanno, oggi, sopratutto quelli che hanno studiato.

La precarietà dei trentenni che sono partiti si misura in un’identità sospesa: essi hanno un piede che affonda nel Sud (gli odori, i cibi, la geografia emotiva dei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche le etichette crudeli che si affibbiano a ciascuno e da cui non si scappa neppure da adulti) e un piede lanciato verso il Nord (il lavoro, la libertà, la solitudine).
Non sono e non si sentono veri emigrati, al massimo trasferiti. A Natale tornano a casa e dopo l’Epifania ripartono carichi di conserve e provviste d’ogni sorta. Eppure non appartengono più al proprio paese di cui, d’improvviso, scoprono vizi e smagliature e dal quale non vengono più riconosciuti; ma nemmeno appartengono alla città che li ospita, che dà loro lavoro e rinascita, perché, in fondo, questa città resta estranea e priva di luoghi emotivamente rilevanti, che scandiscono la memoria personale.
L’inchiesta è un’altalena fra attaccamento alla terra d’origine e rifiuto della chiusura d’orizzonti; Desiati ci pone di fronte a una carrellata di storie, di uomini e donne che hanno sperimentato il disincanto. Alcuni non hanno mai superato la condizione di adolescenti, non si sono allontanati da ciò che erano nella foto di classe, altri sono cresciuti in fretta. La nostalgia cede volentieri il passo a una amara consapevolezza del presente e compromette la spensieratezza del passato, mantenendone piuttosto i rancori, le rabbie, le ingiustizie.

La bellezza della penna di Desiati spicca negli squarci lirici che si aprono qui e là e che raccontano la mia Puglia con un afflato accorato e commovente. Percorriamo le strade mortifere del Siderurgico, per le periferie di Taranto, quartiere Tamburi, Paolo VI, dove la fabbrica più grande del Mediterraneo spalanca le sue viscere pregne di quarzite e di calcite, e si confonde con le antiche vestigia della Magna Grecia.

“Ho lasciato Taranto perché qui non c’era più vita, ma soprattutto non c’era più rispetto della morte”

Di Massafra, cittadina ai piedi dell’Italsider, dal cielo striato di rosa, si legge:

Massafra è un luogo unico. Assomiglia a Matera ma con ancora una sua naturale tensione all’abisso. Soprattutto in un punto particolare dove la gravina si apre in uno squarcio profondo, angosciante. Sopra ci passa un ponte metallico, che sembra finto, sospeso su una cavità non solo spaziale, anche temporale, esistenziale. Su quella crepa di pietra, depressa, aguzza, apparentemente inesauribile, dimentichi il mondo e ti viene voglia di precipitare, volarci dentro. Qualcuno ci è volato davvero dentro. Senza metafore e senza retorica. Nei racconti dei ragazzi di Massafra si sente spesso la storia di qualcuno che ha voluto farla finita e si è lanciato nella voragine”

Disperazione e bellezza. Desiati ha sempre la capacità di cogliere il tragico della nostra terra e degli uomini che la abitano.

Dalla terrazza di Piazza Santi Medici vedi il Castello. Poi dietro c’è l’orizzonte contaminato dalle strisce di fumo. C’è sempre quest’aria con il cielo riempito di una pellicola rosata. È un rosa tramonto, un tramonto perenne che avvolge i paesi immediatamente attorno alla grande fabbrica”

La pietas verso i luoghi, la terra, la Puglia, il Mezzogiorno viene offuscata dall’amarezza, da una denuncia doverosa verso il sistema che non sa fermare la lenta emorragia delle sue forze migliori, che non apre varchi di speranza, che non fa della sua indiscutibile bellezza uno scudo capace di proteggere i suoi figli dalle brutture sociali e dalla mancanza di prospettive. E se nel finale l’autore ci lascia con una promessa, con l’impegno a rimpinguare le fila di chi resta, di chi non parte, la sensazione di fondo con cui si chiude questa foto di classe ha il sentore oppressivo di uno scirocco pesante, l’aria densa di quarzite del Siderurgico che sembra gomma bruciata.
La storia di Mario Desiati, che ha lasciato Martina Franca e che vive e lavora a Roma come scrittore ormai affermato, qui manca. I suoi ricordi costruiscono e deformano la galleria dei personaggi intervistati, ma sarebbe stato interessante leggere della sua personale storia di emigrato-trasferito-fuorisede, capire se oggi la nostalgia o la distanza prevale. Distanza non solo fisica, ma anche culturale, sociale,  esistenziale.


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