martedì 30 settembre 2014

Il desiderio di essere come tutti, recensione sofferta di una lettura a lungo rimandata...

Ho temporeggiato a lungo prima di leggere  "Il desiderio di essere come tutti" (Einuaudi) con cui Francesco Piccolo, il 3 Luglio scorso, ha vinto il Premio Strega.
Sapevo già, per via dell’immancabile clamore mediatico che ruota attorno a tali premiazioni e per gli articoli che avevo letto, che si trattava di un’autobiografia ma anche di un bilancio sullo stato di salute della sinistra italiana negli ultimi anni. Le premesse mi indisponevano.
Le autobiografie mi annoiano, per quel narcisismo che deborda da ogni riga, ma ancor più perché (è un mio limite) nella letteratura cerco sempre un varco verso l’altrove.
La letteratura che non raffina il reale per meglio interpretarlo mi sta stretta, perciò ho un atteggiamento piuttosto tiepido verso le cronache, le biografie, la storia raccontata in bello stile. Per dirla con Antonio Moresco[1], che ho avuto modo di ascoltare nel corso di una presentazione nella mia città: “ Noi non siamo la misura di tutte le cose dentro un orizzonte storico circoscritto”, nella vita dell’uomo c’è una continuità e una radicalità profonda che non si possono costringere in una catena di causa-effetto; nel reale, piuttosto, c’è tanta materia oscura e la letteratura può intercettarla solo a patto di non assumere categorie esclusivamente storiche.
Facciamola breve: quando leggo, amo la finzione.
Poi però mi sono incuriosita. Dal libro di Piccolo numerose esche spuntavano ad allettarmi. Come pure mi allettavano le recensioni positive. E ancor più la sua faccia simpatica. E il titolo, la scritta rossa, che ammicca a un celebre articolo dell'Unità sui funerali di Enrico Berlinguer.

L’esca più subdola, per esempio, giocava la carta della nostalgia. Sapevo che Piccolo aveva iniziato a narrare il suo ingresso nella dimensione pubblica a partire dall’epidemia di colera e dalla diffidenza verso le cozze, passando attraverso i mondiali del 1974, approdando al terremoto in Irpinia del 1980 e affondando negli eventi tragici della nostra storia, come il rapimento Moro o i funerali di Berlinguer: vicende che, sebbene non vissute in prima persona, fanno parte dell’immaginario collettivo delle nostre famiglie e che, in un certo qual modo, appartengono anche a me. Per esempio, alcune delle pagine scritte da Francesco Piccolo avrebbero potuto ben esser scritte dai miei cugini più grandi, suoi coetanei, che tante volte li hanno rievocati con lo stesso trasporto.
Un po’ tutti abbiamo provato quella strana commistione fra pubblico e privato quando gli avvenimenti della storia, rimbalzati attraverso la televisione e i giornali, sono ricaduti nelle nostre vite e nelle nostre esistenze quotidiane (per quanto minime e insignificanti). In nome di ciò, mi sono decisa a leggere l’autobiografia di Piccolo. Per ritrovare quanto di mio ci fosse negli ultimi cinquant’anni di storia repubblicana.

L’incipit
Sono nato in un giorno di inizio estate del 1973, a nove anni.
Fino a quel momento la mia vita , e tutti i fatti che accadevano nel mondo, erano due entità separate, che non potevano incontrarsi in nessun modo. Me ne stavo nella mia casa, nel mio cortile, nella mia città; con i miei genitori, i miei fratelli, i compagni di scuola, i parenti e gli amici – e in un altro pianeta accadevano i fatti che guardavo in televisione. Ogni tanto i grandi ne parlavano, del mondo e dell’Italia in particolare; quindi c’era interesse verso quello che accadeva fuori dalla nostra vita. Ma noi tutti in ogni caso, non c’entravamo niente. E io, ancora meno
L’Infeltrita
Francesco Piccolo dice di non essere nostalgico del tempo passato e conclude dichiarando il suo bisogno di vivere il presente, solo quello. Dichiara inoltre di non voler fuggire in un luogo migliore, sia esso un passato idealizzato e lontano, oppure un altro paese, con una classe dirigente più candida e una popolazione diversa da noi italiani.
La nostalgia, però, è del lettore che si trova immerso nei grandi eventi della cronaca, ampi quadri che facilmente recupera dalla propria memoria e in cui si sente a casa. Eventi dilatati dai media, dalla percezione del singolo, dagli occhi, prima di un bambino, poi di un adolescente che si ritrova a fare i conti con il resto del mondo.

Nel racconto, la dimensione privata si mescola alla dimensione pubblica e in questo trova la sua principale grazia. Il filtro soggettivo ammorbidisce la cronaca, la fa umana, palpitante e perciò meno lineare, meno facile. Pubblico e privato sono qui due categorie problematiche, discusse, intrecciate, che si vorrebbe tenere distinte, ma che sempre restano confuse.
L’autobiografia procede per blocchi, compiuti e autosufficienti. Le diverse parti, tuttavia, sono tenute insieme da una ricorsività che si esprime in richiami, considerazioni, rettifiche e valutazioni che l’autore non cessa di rivolgere al proprio passato, come se i conti con esso non fossero del tutto saldati e il giudizio non fosse mai definitivo. Del resto, non si guarda mai al passato sempre allo stesso modo, ma in maniera diversa a seconda di chi siamo diventati, del presente che viviamo. È la lezione che ricavo da questo libro.
Interessante è anche valutare i due macro-blocchi e i loro titoli: la prima parte “La vita pura: io e Berlinguer”, la seconda parte “La vita impura: io e Berlusconi”.
Da un lato, l’adolescenza scandita dalla scelta emotiva, più che ponderata, di essere comunista (la simpatia per la Germania Est ai mondiali di calcio del 1974 che è simpatia per i deboli, destinati alla sconfitta e tuttavia capaci, per una sola volta, di una vittoria eroica, proprio perché contraria ad ogni pronostico) e la fatica di esserlo del tutto, con coerenza e intransigenza; dall’altro, la vita adulta segnata da una partecipazione alla politica seguendo con diligenza e senza più deragliamenti i passi percorsi dalla sinistra italiana.
Ovviamente, sembrerebbe che il giudizio sia già espresso a chiare lettere: c’è un’epoca felice, buona, incontaminata (Berlinguer) e una perduta, grigia, colpevole (Berlusconi, e prima ancora Craxi). Ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, i puri e gli impuri, la minoranza che tifa per il bene (perde e sublima la delusione della sconfitta nella consapevolezza di essere dalla parte del giusto) e la maggioranza che sceglie il male (e vince!) Questo mi aspettavo, questo volevo sentirmi dire.
In realtà, Francesco Piccolo chiude le sue memorie con delle considerazioni che ci portano da tutt’altra parte, spiazzandoci.
L’errore più grosso che la sinistra ha compiuto negli ultimi anni, è stato quello di rifiutare in blocco il presente con le sue innegabili brutture, mantenere le distanze dalla società, dalla politica, dalla storia, per rinchiudersi in un Olimpo aureo da cui criticare, disprezzare gli altri (i cattivi, gli ignoranti, i corrotti) con l’arma dell’ironia, del sarcasmo, dell’indignazione a volte virulenta, sempre improduttiva.
Dopo la morte di Berlinguer, naufragato per sempre il compromesso storico, e ancor più dopo che Bertinotti nel 1998, in nome della “purezza”, ha scelto di far cadere il governo Prodi, la sinistra ha deliberatamente scelto di votarsi alla sconfitta pur di non lasciarsi contaminare dal presente; si è fatta reazionaria, chiamandosi fuori dalla politica, fuori dai giochi. E ha offerto il Paese alla parte che l’ha mandato in rovina. Non si può non condividere un’analisi, che resta amara nella sostanza.
Piccolo, nel denunciare i propri difetti e i propri errori di uomo, condanna un’intera cerchia politica, miope e incapace di mettersi in discussione. Egli prende le distanze dal fanatismo, dalla mancanza di compromesso che sfocia nella inanità, dalla presunzione di essere i migliori. E finisce per auto-assolversi, al contrario, proprio per quelle volte in cui ha saputo mettere da parte l’atteggiamento moralista, la durezza, l’intransigenza per abbracciare una superficialità intesa come ingrediente fondamentale per vivere bene, per vivere il proprio tempo senza sensi di colpa, per essere parte di un tutto…. per essere come tutti, appunto. Non migliore, non superiore.
Francesco Piccolo ha una vena affabulatoria tendente alla logorrea, quando racconta gli aneddoti non ha fretta, si sofferma sugli antefatti, indugia sui particolari, conduce il lettore per molte stanze, lungo il filo di un ragionamento che si dispiega con calma senza lascare presagire quando e dove andrà a finire. Ma alla fine convince. La sua auto-indulgenza strappa un perdono (difficile) anche nel lettore, che assolve la parte peggiore di Piccolo riconoscendo in essa i propri difetti e le proprie mancanze. Si può dire che "Il desiderio di essere come tutti" è un romanzo di formazione che ha molto del Bildungsroman classico, alla Wilhem Meister. Francesco Piccolo nel finale appare infatti perfettamente conformato all’ideale borghese dell’equilibrio, della misura, del buon senso. Dopo un cammino tortuoso e doloroso, che passa per l’esperienza del rifiuto, per le lacrime di fronte all’umiliazione di Berlinguer, per la meschinità morale del reportage contro l’italietta in settimana bianca a Ovindoli e per la riprovazione di Bertinotti che fa cadere il governo, Francesco Piccolo mette da parte sofferenza e delusione e sceglie di abbracciare il presente, così com’è. Supera inquietudine e inanità e si dichiara pronto a vivere il suo tempo.

E io? Mi riconosco molto in questa biografia, e soffro un po’. 

Zoom
Trovo esilaranti le pagine sul colera del 1973. Perché l’autore ha dato loro sfumatura epica e tragica, e perciò sanno essere estremamente comiche. Perché della perenne diffidenza verso le cozze, maturata da Francesco Piccolo in virtù di un indimenticabile spavento, ne sa qualcosa la mia famiglia che non ha servito molluschi (né cotti né crudi) per i successivi trent’anni. E non è un’iperbole. Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo conosciuto da vicino quella strana sensazione che si prova quando la Storia si svolge vicino, ma non del tutto, rendendoci QUASI protagonisti. E riconosco le vicende del terremoto in Irpinia, una tragedia che, appena un po’ più lontano dai luoghi colpiti, fu percepita come un tempo strano di paura sì, ma anche di emozione condivisa (scuole chiuse, vacanze inaspettate, giorni trascorsi in campagna tutti insieme vicini, come in una grande avventura, quasi una festa). La superficialità di Francesco Piccolo mi fa specie, perché di fatto mi appartiene!








[1] Antonio Moresco (Mantova, 30 ottobre 1947) è uno scrittore italiano, autore di opere narrative, teatrali e saggistiche. Nel 2014 per Mondadori, collana Libellule, ha pubblicato “Fiaba d’amore”, nel 2013 “La lucina”.

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