domenica 21 settembre 2014

Giovanni Raboni, della poesia che fa bene e della pseudoprosa.

"…se penso
a chi è la gente ricca adesso, a cosa
gli costa il capitale
mi convinco che tutto si complica, anche il male "

Le strade che mi conducono ad amare i versi di un poeta sono sempre piuttosto eccentriche. A volte è l’aprirsi casuale di un varco che mi spinge a oltrepassarne la soglia per entrare in una poetica che, diversamente, senza quell’incontro accidentale, mi sarebbe rimasta indifferente o solo incasellata in categorie letterarie scolasticamente recepite.
Sono arrivata a Giovanni Raboni partendo dai versi che ho riportato in epigrafe. Versi estrapolati malamente, senza rispetto per la metrica, tratti dal componimento “Una volta”, della raccolta Le case della Vetra (1955-1965). Nel fluire della poesia, della sua unica strofa, mentre li leggevo a bassa voce, con dizione sporca, nella solitudine della casa, in cerca della compagnia discreta che solo i poeti sanno dare, si è fissato nella mente, d’improvviso, questo passaggio, strappando al mio volto un sussulto appena percettibile, un rapido dilatarsi delle pupille, il tendersi dei muscoli occipitali e un respiro appena più profondo.
La musicalità, il ritmo degli enjambement, ma soprattutto la rima, liquida e distesa, unica nell’intero componimento, hanno avuto la forza di fermare, in un lampo, un concetto che, mi è sembrato, fotografare un’epoca. Il cambiamento nel suo incipit.
E ho pensato alla forza della poesia, alle parole che possono con il loro peso semplificare la complessità senza svilirla, raccontarla sublimandola e non abbassandola, analizzarla icasticamente e con pulizia. Rendere bello un tema poco lirico, anzi arido, se non deprimente. Il capitale.

Torniamo al concetto di partenza. È la profezia di Tomasi di Lampedusa che si avvera: tramontata l’epoca dei gattopardi è arrivata l’epoca degli sciacalli. E Milano, protagonista di molta poesia del Raboni, ne è lo scenario perfetto: Milano capitale di economia politica che applica la legge della domanda e dell’offerta sui salari, sulle teste degli operai e forma le nuove generazioni di borghesi rampanti, coprendone “ i santi moti del cuore”, perché siano uomini lucidi e spassionati coi colletti rotondi e inamidati  “…a diciotto, diciannove anni e nessuno/ che ci dicesse sul muso “stronzi”, il nostro modo/ di rivoltarci era quello, il conformismo, / la pacatezza, il freddo disgusto/ per le intemperanze giovanili; aver schifo della rivoluzione…” (Lezioni di economia politica, da Le case della Vetra). Il mondo dell’economia, la Borsa, le multinazionali, i “vaghi scandali” trovano qui spazio poetico (ma come ci riesce?) e critica: siamo nei primi anni Sessanta e la crescita modifica la percezione dei luoghi, le relazioni, i valori. La frenesia che sottende il vuoto. Milano è agli occhi dei viaggiatori “una gabbia di matti, dove/ non cadrebbe uno spillo/ anche se poi, a scoppiare è proprio il vuoto”. (Proprio il vuoto, da Le case della Vetra).
Ritrovo in questa raccolta poetica la genesi di quella cultura grigia, sotto la cui egida la mia generazione è nata, spesso priva di anticorpi, non più capace di discuterla o anche solo di rilevarla. Esempio: “Realtà / è lo squallore dei viaggi, la carriera mal digerita, / le raccomandazioni che non servono a niente/ o arrivano in ritardo; è avere invece / dello stagno grigio e mattutino, pieno / di pigra cacciagione, / questo sporco catino dove mi lavo le mani” (Pozio P., da Le case della Vetra). In questi versi, che volli sottolineare e che spesso mi trovo a rileggere o a citare, ritrovo il manifesto di un pensiero dominante, annidato dappertutto: “ …E così niente abbracci/ al baritono negro, allo scienziato/ ebreo per parte di madre, niente fiori/ sulle fosse o rimproveri sgarbati/ agli aguzzini. Quando più te l’aspetti/ torna a tirare un’aria di cappucci” (19**) . L’aria di cappucci è tornata, io temo, o non se n’è mai andata.

Il Raboni che preferisco è questo, dunque. Il primo Raboni, direbbero gli studiosi, quello de Le Case della Vetra. Senza metrica tradizionale, a poche rime, capace di incursioni in un lessico poco lirico che il ritmo rende, suo malgrado, fortemente poetico e pregnante. Giovanni Giudici, nel 1993, in un articolo apparso su l’Unità del 5 novembre, dirà che la sua è una fuga dal luogo comune, dal poetico ad ogni costo, una pseudoprosa che ci rimanda alla “linea lombarda” del Parini, il quale, come sappiamo, non disdegnava di usare, nei suoi versi, vocaboli attinti dalla meschinità della tecnica e della scienza. Un compromesso con la materia, con la storia, col pensiero. E tanto spazio all’ironia.
Il Raboni maturo è, tuttavia, il poeta della “forma chiusa”, quello che nelle ultime raccolte recupera la tradizione e fa rivivere i sonetti. Alle soglie del Duemila ritrova, infatti, nella madre di tutte le tradizioni poetiche, uno strumento con cui dare unità poetica ai temi di tutta la sua vita: l’impegno, l’angoscia privata, la meditazione sulla morte, la pietà dei corpi, l’ironia a dispetto di ogni dramma.“«Orribile a dirsi, in un certo modo/ io sono comunista» - un talismano/ passato, perduto di mano in mano,/ cruenta, arrugginita reliquia, chiodo/ torto nel muro della storia…” (da Quare tristis, 1998).

A dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 16 settembre 2004, Giovanni Raboni è stato protagonista della giusta commemorazione che il mondo della cultura rivolge ai suoi benemeriti, servendosi, oggi, sempre più spesso degli strumenti messi a disposizione dalla Rete. E così, nei giorni scorsi, sui principali Social Network che frequento mi sono imbattuta in frequenti omaggi al poeta e ho avuto modo di leggere articoli disparati, quasi tutti molto interessanti. Alcuni sottolineavano la scelta, antinovecentesca, di tornare alla metrica chiusa, altri rievocavano la sua amicizia con Vittorio Sereni, altri ancora ne presentavano la biografia o riproponevano il testo integrale delle sue ultime interviste in cui egli rifletteva, con rammarico, su quanto poco spazio l’editoria moderna lasci alla poesia e ai poeti.
Tutti, volendo proporre un testo, a titolo esemplificativo, hanno scelto lo stesso componimento per cui mi consigliarono, sei anni fa, la raccolta Tutte le poesie di Giovanni Raboni dal 1951 al 1998, edito da Garzanti per la collana Gli elefanti: “Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro…” da Canzonette mortali. Un componimento che parla d’amore e che voglio riportare anch’io, in parte, sebbene non sia ciò che amo di più questo autore.
Io che adoro le spoglie del futuro
e solo del futuro, di nient’altro
ho qualche nostalgia
ricordo adesso con spavento
quando alle mie carezze smetterai di bagnarti,
quando dal mio piacere
sarai divisa e forse per bellezza
d’esser tanto amata o per dolcezza
d’avermi amato
farai finta lo stesso di godere.”
Giovanni Raboni e Patrizia Valduga
Canzonette mortali è una raccolta dei primissimi anni Ottanta, dedicata alla poetessa Patrizia Valduga, in cui l’amore è colto nella dimensione erotica, sensuale. Non si tratta di canzonette morali, ma “mortali” e perciò tutte percorse dalla dimensione struggente del presente che, con la sua pienezza, dà nostalgia anzi tempo, tanto è breve e destinato a sfuggire, a passare. Il presente, come l’amore, è colto nella sua dimensione caduca, appunto… “mortale”. Il poeta vi si aggrappa con furia perché l’ossessione della vecchiaia, il contrasto con la gioventù della donna lo angoscia: “ Nel bar pieno di gente/ giovane che saluti e che mi guarda/ come un intruso il tuo bisbiglio/ docile e spudorato/ - vuoi che…? – a farmi invisibile e beato.// No, non ne ho avute mille e tre – nemmeno/ seicento e quaranta, o novantuna. / E tu quanti? Di colpo lunga o corta/ che sia la lista, il cuore s’accartoccia,/ fa male. Eppure so che non importa” così lo ritroviamo in preda alla fragilità che è propria di chi cede al sentimento, senza difese. “Una ghirlanda, un foglio per ciascuno/ degli anni che volevi dimostrare, / che non avevi ancora,/ che hai compiuti con me”.
“Raboni ha scritto alcune delle poesie d’amore più belle di questi anni” scrisse Attilio Bertolucci e io sono contenta di averle trovate e lette.

Cari amici, spero che questo tuffo nella poesia non vi abbia disorientato. Che si sia aperto un varco anche in voi. Se così è stato, vi lascio il link del sito ufficiale del poeta dove potrete ascoltare la bellezza di alcuni suoi versi dalla sua stessa voce: http://www.giovanniraboni.it/Default.aspx  





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