giovedì 7 agosto 2014

Segreta Penelope di Alicia Gimenez-Barlett


Recupero la recensione di un romanzo che mi ha tenuto compagnia lo scorso agosto, in una domenica piovosa, a due giorni dalla partenza per il nostro viaggio di nozze in Perù, mentre mio marito sonnecchiava sul divano in balia di una febbre improvvisa quanto inopportuna. Segreta Penelope di Alicia Gimenez- Barlett: ne leggo le noticine disordinate sui fogli di guardia e ricordo lo stato d'animo che mi accompagnò quel giorno nella lettura.
Abituata ai gialli allegri e scanzonati di Alicia Gimenez Barlett, una scrittrice spagnola che ha dato vita al personaggio dell'ispettore Petra Delicado e del suo aiutante pasticcione Fermin, sono stata letteralmente spiazzata da questa storia, con tutt'altre coordinate e di tutt'altro genere. 
Prima di tutto, per condensare il sugo del romanzo e della mia amarezza, decisi di infeltrire un Tweet. Faceva pressappoco così: "Dalla gioventù anarchica e fiorita al dramma dell'imborghesimento. Sara diventa Penelope." Sara è il nome della protagonista, una donna la cui giovinezza sregolata e gaudente non lascia nemmeno lontanamente presagire la Penelope che si nasconde in lei. E che (forse) la uccide. 
Segreta Penelope, A. Gimenez-Barlett
ed. Sellerio 2006 trad. Maria Nicola

Incipit 
"Sto scrivendo nella mia casa. Vivo in un appartamento su due piani. Lavoro al piano di sopra, di sotto c'è un mio amico. Se ne sta seduto, solo, davanti al televisore. È una situazione strana, del tutto insolita per me. Gabriel mi ha chiesto di poter vedere un video perché lui non ha il videoregistratore né ce lo avrà mai. Si rifiuta di comprare elettrodomestici che non abbiano una chiara ragione desistere, e un videoregistratore, secondo lui, di ragioni di esistere non ne ha, tranne che in rare occasioni, come oggi. Oggi deve vedere le riprese di alcuni quadri destinati a una mostra su cui gli hanno chiesto di scrivere qualcosa. L'ho lasciato nel soggiorno con una tazza di caffè. Mi fa piacere che sia qui, è un amico ritrovato."

L'Infeltrita
Lettura sofferta, tira in ballo la donna, le donne, la questione femminile mai del tutto risolta. Qualche refuso (strano in un'edizione Sellerio) accresce il mio malumore. 
Un gruppo di amici si ritrova al funerale di Sara, morta suicida. Occasione di bilanci e di rievocazioni. A ritroso, si ricostruisce la vita della defunta, e subito scatta la macchina infernale dell'amarezza.
Il punto di vista è quello di un'amica che ricostruisce il passato della protagonista affastellando ricordi e commenti personali. La narratrice rimprovera Sara perché si è lasciata cambiare accettando consigli pieni di buon senso e adeguandosi, con mille sforzi, alle norme, barattando il disordine sregolato e felice con un ordine innaturale e meschino. Sacrificandosi.
È chiaro che se Sara è, nei suoi ricordi, il simbolo della giovinezza ribelle e vitale, il rimprovero della narratrice diventa un'accusa all'incapacità di conservarsi intatta ed eterna. Giovinezza senza fine, come se fosse possibile. Sara è cresciuta - e non doveva! - ma quel che è peggio, ha accettato di crescere secondo l'unica via possibile e ammessa dalla società: "avere un marito o una moglie come si deve, figli legalmente riconosciuti, prestigio sociale e professionale, amici...[...]"  come se "la dotazione necessaria per essere ragionevolmente felici" prevedesse "stabilità, sicurezza, agio borghese". La condanna si applica alla ragionevolezza prima ancora che all'imborghesimento. Essere ragionevoli, infatti, non ha nulla a che vedere con la ragione, ma solo col comportamento socialmente accettato.

Recensione infeltrita in bozza sulle pagine di guardia!
L'ammirazione incondizionata per la Sara del tempo che fu misura tutta la delusione di fronte al cambiamento che la donna aveva messo in atto prima di morire: "interminabili discussioni teoriche e scopate fameliche, questo era il risultato, più o meno soddisfacente della nostra rivoluzione. Per questo mi affascinava la facilità con cui Sara collezionava cazzi senza ricorrere ad alibi intellettuali". Sara, divenuta Penelope, pallido riflesso di se stessa, sconosciuta ai più, priva di un'identità forte, sembra dunque meritare la fine che ha cercato. Questo ci dice la narratrice, ma il lettore diffida del suo punto di vista che troppo spesso si abbandona al confronto compiaciuto e narcisistico tra Sara e se stessa, e il giudizio è univoco anche se implicito. Gli altri hanno vinto, Sara ha perso! Con quanta foga il gruppo di amici ritrovati si affanna a metterlo in chiaro, rimarcando le distanze fra la triste parabola della defunta e il corso sereno delle loro vite!
"Nel corso di quegli incontri ci tenevamo a mettere in chiaro che le nostre personalità erano rimaste immutate, che non ci sentivamo del tutto integrati nel sistema borghese. Qualche anno dopo le cose cambiarono, e divenne importante dimostrare che il nostro ingresso nel sistema era avvenuto attraverso le porte del successo"
Sarà poi vero? 
Il dubbio si insinua nel lettore, immediatamente. Che cosa genera accanimento nella narratrice? L'ingiusta morte di un'amica? L'insofferenza verso la debolezza che Sara ha dimostrato? L'incoerenza di un'anarchica diventata madre e moglie maldestra? O forse che una segreta Penelope alberghi in ciascuna donna? Che in ogni donna, compresa se stessa, ci sia la pulsione a reprimere la libertà, il desiderio, l'autodeterminazione per darsi all'altro, per farsi ciò che la società si aspetta?
Zoom
Il romanzo però non è solo una requisitoria sul fallimento del femminismo.
In senso più ampio, questa storia narra la decadenza di una generazione che, dopo i sogni arditi e fumosi della giovinezza, ha dovuto accettarsi mediocre e lo ha fatto con naturalezza, quasi compiacendosene; una generazione che, imparando il saper vivere, ha iniziato lentamente morire. 
Romanzo di de-formazione. Al lettore manca disperatamente il punto di vista della protagonista che resta muta, incompresa, anzi del tutto sconosciuta. In realtà diffidiamo del ritratto da novella Sylvia Plath che la narratrice costruisce, quasi con dispetto, lo sentiamo poco autentico, incrostato da un eccesso di ideologia, da un femminismo che pare estraneo alla vita di Sara così come estranee le erano tutte le ideologie, tutte le teorie, tutte le rivoluzioni professate e non vissute."Sara è ancora con tutti noi, come una vittima sacrificale del destino, che in un certo senso ci libera dalla fatalità e dalla morte" Ecco, Sara è piuttosto un capro espiatorio. È ciò che resta del Sessantotto, dei fioriti anni Settanta, della contestazione tutta simboli e canzoni
Coraggioso, in ultimo, l'affondo alla psicoanalisi freudiana, estremo baluardo dell'equilibrio borghese (il tutto simboleggiato alla perfezione dalla barba ben curata di Freud), come a rompere finalmente un tabù culturale, l'ennesimo mito di quella rivoluzione sessantottina che nel nostro presente ha lasciato più macerie che rimpianti. "In questo si era risolto tutto quanto? Un maggio francese del quale ci era giunta soltanto l'eco, una somma sacerdotessa tramutata in agnello e sanguinante? Dio, che schifo di generazione, la nostra! Che fallimento!"

Nessun commento:

Posta un commento