domenica 13 luglio 2014

Storia di una lettura sofferta - Il tamburo di latta

La lettura contiene in sé storie diverse. Non solo quelle che racconta l'autore, ma anche quelle del lettore che incontra il libro e ne fa esperienza. Italo Calvino ha celebrato questo incontro in un romanzo molto amato - Se una notte d'inverno un viaggiatore -rendendo protagonisti un Lettore appassionato, una Lettrice sfuggente e il bisogno compulsivo della lettura. Ho deciso, perciò, di farmi io stesa protagonista-Lettrice e di raccontare la mia esperienza con Il tamburo di latta  prima di recensirlo come faccio di solito. Considerate questo post un antefatto. La personalizzazione di un classico controverso, che non tutti hanno apprezzato.
In realtà, mi piacerebbe estendere la conversazione e -la butto là- conoscere le vostre storie di Lettura e di Lettori, non necessariamente di questo romanzo: un racconto breve, magari, o solo qualche battuta, sull'incontro con un libro, speciale o ordinario, molto amato o contestato o difficile da reperire o regalatovi, qualunque cosa vi abbia mosso pensieri, critiche, rivoluzioni. O anche solo sforzo fisico (caratteri impossibili, pagine intonse, edizioni scompaginate ecc.)

Storia di una lettura sofferta[1]
Il mio primo incontro con Il tamburo di latta di Günter Grass risale all’inverno 2003 ed è stato un incontro fortuito.
All’epoca, la Repubblica e il Corriere della Sera proponevano ai loro lettori, come supplemento settimanale, due serie distinte di romanzi novecenteschi, entrambe dedicate agli autori contemporanei. Il Corriere puntava sulle nuove generazioni, la Repubblica su quei titoli che potevano già definirsi classici. Nella mia città non c’era bisogno di prenotare i volumi in anticipo, i giornalai erano ancora sufficientemente incoscienti (e forse pochi erano pure i controlli da parte delle testate!) e riuscivano a vendere tutte le copie che ordinavano indipendentemente dal quotidiano cui erano associati e, quindi, anche a distanza di settimane dall’uscita. Molti di loro avevano persino allestito un piccolo reparto libri all’interno dell'edicola dove, finalmente, si poteva trovare qualcosa di meno deprimente che la melassa di Harmony e affini. Questa comune infrazione alle regole di vendita degli allegati permetteva agli acquirenti occasionali di poter scegliere cosa comprare e quanto, a prezzi bassi. Non era corretto verso le librerie ufficiali, lo so,  ma a 23 anni non ci pensavo, incosciente e a tasche vuote come ero. Volevo leggere tanto, tuttavia ero ancora una studentessa e le spese - comprese quelle per la lettura - andavano centellinate.
In quei giorni studiavo Storia Contemporanea, uscivo poco: si trattava di un esame impegnativo, il penultimo, lontano dalla mio curriculum classico, eppure capace di tenermi lontana da qualunque svago e di assorbire tutta la mia attenzione. Il Novecento mi appariva affascinante, crudele e sfibrante. Mi spostavo senza sosta dall’Europa alla Cambogia, dall’Africa post-coloniale alla cortina di ferro e, intanto, sentivo il bisogno di evadere. Come? - Mi ci voleva una lettura fresca e leggera.
Mi accorsi che il Corriere in quei giorni aveva proposto in allegato un romanzo di Andrea De Carlo - Due di due? Boh-  autore che non conoscevo ancora e di cui avevo ascoltato pareri entusiasti; chiesi pertanto a mia madre, in procinto di uscire per la spesa, di passare in edicola a comprarlo. Specificai titolo, autore, testata giornalistica.
Forse mi spiegai male. Forse le copie del Corriere erano terminate e, con esse, anche quelle del supplemento. Forse ci fu dolo, da parte di mia madre. Forse era destino. Di fatto, mi ritrovai a casa con un corposo romanzo dalla sovra-copertina celeste. Evviva, pensai, libro lungo, lungo passatempo. Ma quale sorpresa fu constatare che il quotidiano acquistato era la Repubblica e il romanzo, Il tamburo di latta… non certo di Andrea De Carlo!
Chi fosse Günter Grass lo ignoravo, premio Nobel compreso. Avanzai qualche debole protesta per l’equivoco, ma durò poco. Incominciai la lettura. E capii che non era poca cosa. Che non era un passatempo. Che non era un’evasione dal Novecento terribile e sanguinoso, piuttosto una colata a picco.
Eccola, la parabola della Germania in fiamme, della guerra efferata, dello sterminio, della borghesia colpevole, dell’arte venduta al potere, della decadenza irreversibile della società post-bellica! Altro che lettura fresca e leggera, il materiale scottava.
E mi perdoni De Carlo, Günter Grass l’ho amato.
 Ho letto con furia questo romanzo. Sembrava un contrappunto cupo e dissonante allo studio ufficiale della storia cui mi accingevo con diligenza un po’ fiacca. Apollineo e dionisiaco, intersecavo luci e ombre, fantasia allucinata e sconcertanti realtà. Letteratura e storia, immaginario e realtà. Era come dare colore, disegno, partitura irrazionale all’analisi di cause, conseguenze, congiunture e congetture con cui gli autori del manuale accademico, in italiano impeccabile, si accingevano a presentare la storia della Germania prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma non fu facile leggere il Tamburo di latta, alla cieca, senza una recensione preparatoria, senza spoileraggio (se un libro è geniale, al diavolo sapere in anticipo come finisce, stupisce a prescindere), senza sapere a che cosa andassi incontro esattamente. E ritrovarsi immersa in pagine – come definirle?- efferate, disgustose, grottesche, dure, eccessive, temibili al punto che, pur non potendo smettere di leggere, spesso mi ritrovavo spaventata dall’idea di cosa mi avrebbero serbato i capitoli successivi. E così fino all’ultima pagina. Ho litigato con questo libro, ho protestato, mi sembrava scorretto, lontano dal prato inglese della buona educazione, oltre la decenza. Sono arrivata all’ultima pagina, col pelo sullo stomaco, irrobustita.
Nell’aprile del 2005, quando il Presidio del Libro della mia città, oltre ad organizzare incontri con l’autore, lasciava spazio agli incontri coi lettori (lettori comuni a cui si dava facoltà illimitata di scelta ) volli presentare proprio questo romanzo. Mi sembrava di averlo odiato e invece lo ricordavo, passo a passo. E volevo condividerlo. Mi apparteneva profondamente.
Dipinti, musica, lettura distorta (la vergogna non mi apparteneva proprio) non mi feci mancare nulla nella presentazione. Volevo che passasse l’idea dell’eccesso. Mi spiace non avere, oggi, né un video, né una foto, né la presentazione in Ppt che realizzai per l’evento.
Se è vero che un libro è parte di una rete, è un grappolo di concetti che si tengono insieme, io al Tamburo di Latta associai l’Espressionismo più esasperato, Otto Dix e i suoi orrori della guerra, la musica dodecafonica di Schömberg e Webern o i timpani spettrali della Prima Sinfonia di Mahler. E poi un figlio dell’irrazionale come Rasputin, la dolente malinconia della musica Yiddish e quel tanto di Freud che serve come capro espiatorio da votare alla parodia.
Al film (di Volker Schlöndorff del 1979) ci sono arrivata tardi, due anni fa e per gentile, quanto inattesa, concessione di un collega che ne aveva reperito il DVD, quasi introvabile, in un negozio specializzato in vecchi film. Ovviamente, il film mi ha deluso. Una sintesi estrema, comprensibile, ma più infeltrita delle mie infeltrite. Il vizio che non perdonavo al film è forse, tuttavia, che non ha saputo replicare lo stupore provato leggendo il “De Carlo mancato”, quel romanzo piombatomi in casa per errore (o forse con lo scopo di tenermi impegnata per più tempo, come ebbe a confessare mia madre che preferì comprare, a parità di prezzo, il libro con più pagine) ma più grande, più eccentrico, più complesso delle mie aspettative e forse delle mie competenze di lettrice di allora.


Ho deciso di raccontare questa storia prima di elaborare una recensione vera e propria perché esistono, per ogni lettore, letture speciali che segnano una maturazione. Sono letture difficili, che si vorrebbe abbandonare a metà, che turbano, ma che in fondo ci sfidano e ci mettono in discussione. Così sono diventata una lettrice adulta. Il tamburo di latta è ancora oggi, per me, lo specchio del Novecento. È la storia deformata, disarmonica, gridata, negata, immaginata, schizzata, più vera dell’esame sostenuto, delle fotografie di repertorio, della storiografia scientifica rigorosa e fredda.
-  Una storia che scotta.
Otto Dix, At the mirror, 1921 
Incipit
Non lo nego: sono ricoverato in manicomio; il mio infermiere mi osserva di continuo, quasi non mi toglie gli occhi di dosso perché nella porta c’è uno spioncino, e lo sguardo del mio infermiere non può penetrarmi poiché lui ha gli occhi bruni, mentre i miei sono celesti..
Il mio infermiere non può dunque essermi nemico. Ho preso a volergli bene, a questo controllore appostato dietro lo spioncino. Appena mi entra nella stanza, gli racconto vicende della mia vita; così, nonostante lo spioncino che gli è d’ostacolo, impara a conoscermi”

Per la recensione appuntamento al post successivo!!










[1] Per chi cerca la recensione, pubblicherò l’Infeltrita nel post successivo. 

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