martedì 1 luglio 2014

Cortocircuito e Wittgenstein: la Scopa del Sistema

Paradosso, accelerazione, malattia.
Ridere a crepapelle nel silenzio della casa vuota, in solitudine perfetta, è un’esperienza che mi ha fatto sentire parte del sistema-libro di Wallace, l’ennesimo personaggio secondario che si affaccia nelle pagine de La Scopa del Sistema, con i suoi tic, l’isteria, la buona dose di grottesco - un marchio per ciascuno - e la confusione logica verbale memoriale da cui non si ricava che disperato bisogno di silenzio. 
Eppure, per quelle risate mi sono sbellicata, anche se non c’era nessuno - e ho sofferto!,  perché francamente nemmeno in seguito sono riuscita a condividere o, anche solo lontanamente, a comunicare le ragioni per cui queste pagine mi sono apparse immediatamente esilaranti e tragiche, alienanti e sarcastiche. 
Ci provo adesso. O magari sbaglio, ché la bellezza di questo romanzo è anche nella sorpresa di trovarsi di fronte al puro assurdo.
 
David, Foster Wallace, La Scopa del Sistema
ET Einaudi, 2012
 Trad. Sergio Claudio Perroni  
L’incipit:
“Molte ragazze davvero belle hanno dei piedi davvero brutti, e Mindy Metalman non fa eccezione, pensa Lenore, all’improvviso. Sono piatti e lunghi, con dita strombate e i mignoli afflitti da bottoni di callosità giallognola che compare a mo’ di battiscopa lungo i calcagni, e sul dosso dei piedi sbucano peluzzi neri arricciati, e lo smalto rosso è screpolato e si scrosta a boccoli per quant’è vecchio, mostrando qua e là striature bianchicce”

L’infeltrita:
la struttura è quella della queste, una doppia ricerca che mette in moto la macchina narrativa, a ritmo frenetico, quando Lenore Beadsman, bisnonna dell’omonima Lenore Beadsman, scompare dalla sua casa di riposo con altri ventiquattro pazienti e le infermiere. È costei un’ancienne terrible, antica discepola di Wittgenstein, bisognosa, per sopravvivere, di una temperatura esterna di 36,5 gradi, come fosse un animale a sangue freddo. A questo punto il lettore può già misurare la follia della trama.
Non si cerca, tuttavia, solo la bisnonna centenaria alle prese con esperimenti sulla ghiandola pineale e lo sviluppo del linguaggio, si cerca anche, un po’ più sommessamente, l’identità di Lenore Beadsman/pronipote, ventiquattrenne perduta in un sistema insano (pullulante di personaggi isterici e paradossali...fortissima la tentazione di citarli tutti!) che ha come sfondo una Cleveland circondata da DIODeserto Incommensurabile dell’Ohio –  luogo artificiale dell’anima, dove, come turisti assetati di selvaggio, si va a comprare un po’ di desolazione e un altrettanto artificiale ritorno alle origini.
Lenore/pronipote è in cerca della riappropriazione del sé, sommersa com’è dalle parole altrui che la stanno fagocitando: racconti abortiti, sceneggiature kitsch, psicoanalisi demenziali e lucrose, querimonia garrula e castrante di un fidanzato attempato che si chiama Vigorous, ma è alquanto nevrotico, possessivo, capriccioso e vagamente effeminato, sproloquio del pappagallo invasato che ripete salmi-oscenità- luoghi comuni-saluti ai telespettatori configurandosi di fatto come la Superstar delle TV private.
Il sistema in cui è immersa Lenore sta per scoppiare. Come per le linee telefoniche del centralino in cui lavora, impazzite all’improvviso, si assiste al cortocircuito emotivo e razionale della ragazza. E, proprio nell’esplosione, le si augura una via di fuga.

Ora arriva il difficile, spiegare la scrittura di Wallace.
  • Dialoghi serrati intervallati da silenzi rappresentati sulla pagina: …
  • Dialoghi senza indicazione dei parlanti, di chi domanda e di chi risponde, senza preamboli e senza didascalie.
  • Dialoghi infestati da intercalari e ridondanze.
  • Monologhi interiori e monologhi esternati.
  • Verbali.
  • Spezzoni di racconti cassati, spediti a una casa editrice.
  • Racconti ri-raccontati.
  • Spezzoni di sceneggiature
  • Testi di trasmissioni televisive.
  • Resoconti di sedute psico-analitiche.
  • Frammenti.
Questo libro è la prova INVALSI per lettori esperti. Un testo misto, volutamente disordinato, che gioca con le ambiguità del linguaggio, che dissemina informazioni fondamentali alla ricostruzione della trama in un magma di superfluo, in uno show senza fine che ci getta nel cuore dell’americanità pura fatta di college, affari, slang, marijuana, bulli, pupe, santoni, nevrotici, stereotipi, obesi stratosferici, business immorali, trionfo del pacchiano, dell’abnorme, del posticcio – senza la quale questo libro non avrebbe la sua carica micidiale di sarcasmo e genio. Che ti fa ridere da solo, straniato e stordito.
E nonostante tutte queste risate, non aspettatevi nulla di comico. La scopa del sistema è come il teatro dell’assurdo, si costruisce sul tragico, sul baratro dell’incomunicabilità, sull’impossibilità di dare un senso univoco e assoluto alle parole. E non conclude.

Zoom:


Posto d’onore, nel mio cuore di lettrice, spetta a Vlad l’Impalatore: one-man-show, un pappagallo che ha imparato a parlare in una notte sola Usami. Soddisfami come mai prima d’ora, genio della parola che comunica ma non dice Santo, santo” "Devo fare ciò che è giusto per me come persona". Dietro di lui ci metto oggi tutta la televisione, le frasi fatte, le opinioni della gente, i luoghi comuni, i proclami, il peggio del giornalismo, i blog moltiplicatisi all’infinito, le interiezioni dei social network, i messaggi di wathsapp, le interviste dei calciatori, gli insulti dei troll in rete, le citazioni che non citano l’autore, i copia e incolla, le parole chiave, i tag, gli hashtag, i manifesti, i comizi, la pubblicità, la neo-lingua-  tutto il rumore di fondo che ci stordisce e ci allontana dal senso -  non solo dal buon senso.
Non è un caso che Vlad l'Impalatore impazzi in TV con un nome che parla: Ugolino il Significante, cioè forma pura, non significato.

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